29 aprile 2020
In questo periodo abbiamo spesso sentito parlare di diverse iniziative di smart working, di webinar programmati, di business continuity, delle straordinarie funzionalità di Microsoft Teams e di nuovi approcci e metodologie al lavoro. Lavorare nell’emergenza richiede una grande capacità di adattamento, su diversi piani. Ne abbiamo parlato con Luigi Villanova, Associate Parner e Service Line Manager di Agic Technology.
1) L'impatto delle restrizioni per il Coronavirus ha colto molte aziende italiane impreparate e ha mostrato il grave ritardo nel processo di Digital Transformation del nostro Paese. Può essere questa l'occasione per accelerare realmente questa transizione?
Certamente lo è. A causa della recente epidemia e delle ovvie (e opportune) esigenze di “distanziamento sociale”, lo smart working è diventato un must nel nostro Paese, e non solo. Il problema, però, è che si è trattato di uno smart working all’insegna dell’urgenza e del “fai da te” e, per questo, non propriamente “strutturato”. Basti pensare che prima del Coronavirus erano appena 570.000 gli smart workers in Italia (fonte Politecnico), su una stima di potenziali otto milioni. Ebbene, il tredici marzo, appena quattro giorni dopo il primo DPCM dell’”era COVID”, il dato era praticamente raddoppiato (fonte Ministero del Lavoro) ed il traffico dati nelle abitazioni aumentato mediamente tra il 20 ed il 50%. Tutto facile quindi? No, perché ci sono almeno due ostacoli da superare: il primo è la banda larga, che in Italia raggiunge un cittadino su quattro, contro la media del 60% degli altri Paesi UE; il secondo è la mentalità, ancora mediamente poco aperta all’innovazione, soprattutto nelle PMI. Ciò detto, se tutto questo fosse successo quindici o venti anni fa saremmo arrivati al collasso in poche ore. Oggi, invece, possiamo sfruttare questa (seppur maldestra) partenza per proseguire spediti verso la vera “Transformation”, a patto di lavorare seriamente su tre componenti “Digital”: piattaforme, competenze, approccio.
2) Lavorare in full smart working prevede la gestione delle risorse, anche più Junior, da remoto. Come si sta gestendo la crescita e il team working in questo momento delicato?
Questa è una domanda che sento spesso in questo periodo. Come si fa a garantire il “lavoro di squadra” in questa situazione? La risposta per me è scontata: esattamente come si faceva prima. Scontata, perché personalmente facevo già un uso abbondante dei moderni strumenti di comunicazione e collaborazione, ben prima che l’epidemia mi costringesse tra le mura domestiche. Facile, quindi, per chi era già “pronto” ed ha potuto così acquisire un vantaggio competitivo importante verso i competitor che lo erano di meno. E poi, a proposito di “junior”, vi lancio una provocazione: siamo proprio sicuri che in questo contesto di full smart working non siano anche loro ad aiutare le aziende nel processo di trasformazione digitale? Oggi nel mondo del lavoro convivono quattro generazioni di persone, e sono proprio i più giovani, i millennials, ad avere una marcia in più nell’utilizzo delle nuove piattaforme digitali. Non foss’altro perché, per loro, rapportarsi agli altri attraverso un display è molto più “naturale” di quanto non lo sia per le generazioni precedenti.
3) Il Webinar del 31 marzo su Microsoft Teams ha avuto un ottimo successo. Molte aziende stanno riconoscendo il potenziale di questo strumento. Nel solo mese di marzo Teams ha registrato 14 milioni di nuovi fruitori, con numeri destinati a crescere. Cosa rende Microsoft Teams decisamente superiore rispetto a soluzioni simili?
Per me, tra tutti, c’è un aspetto fondamentale che rende Microsoft Teams decisamente superiore rispetto ad altre soluzioni simili. La sua straordinaria estensione. Teams racchiude infatti messaggistica, chat, chiamate, documenti, task management… tutto all’interno di un’unica app. E non solo, grazie alla miriade di integrazioni che è possibile configurare con altre piattaforme, di casa Microsoft e non. Come ha detto Satya Nadella, Teams presto diventerà “il nuovo Windows”. Non parliamo infatti di una semplice piattaforma di communication & collaboration, ma di un vero e proprio hub di servizi, che ognuno di noi può costruire e plasmare sulle esigenze proprie, del proprio team, della propria organizzazione.
4) Quali sono i reali tempi di implementazione di Microsoft Teams? Un esempio concreto
Ti parlo dell’esperienza del Tasso. Venerdì 13 marzo, in serata, mi arriva una telefonata di Paolo (Paolo Brunati, ndr). Mi dice che il preside è in difficoltà e lo ha contattato perché ha bisogno di una soluzione semplice e subito pronta per garantire, da remoto, la continuità delle lezioni. Beh, domenica sera era già tutto pronto: classi virtuali create, docenti e studenti (circa mille) dotati di username e password per l’accesso. Pochi giorni dopo abbiamo organizzato, sempre via Teams, un evento live per illustrare a tutti loro le funzionalità dello strumento e metterli in condizione, da subito, di lavorare. Il 20 marzo ci arriva una lettera di ringraziamento del preside, della quale riporto un passaggio significativo: “E' importantissimo che gli alunni nella presente situazione sentano la presenza dei docenti e sia ben saldo il filo del contatto umano. I ragazzi, ma anche i docenti, hanno bisogno di normalità e di sentirsi parte di una comunità che ora è a loro fisicamente precluso frequentare. Grazie alla tecnologia e alla vostra generosità ora per i docenti e gli studenti del Liceo tutto ciò è possibile”. Una bella storia.
5) In questo periodo, applicazioni e sistemi a supporto del business divengono decisivi. Agli sviluppatori si chiede velocità, qualità e sicurezza. L’approccio DevOps.
Velocità, qualità e sicurezza. Mi piace parlare dell’approccio DevOps, che affonda le proprie radici nel periodo della rivoluzione industriale. Parlo del dado e del bullone, e del tornio a vite che ha consentito di produrli in serie, rendendo così possibili le prime ferrovie, i primi treni a vapore, e tutto ciò che ne è seguito. Ebbene, così come il tornio a vite ha avviato la standardizzazione dei processi industriali, allo stesso modo l’approccio DevOps ha consentito di standardizzare il processo di produzione del software. Cosa, questa, estremamente importante, perché la produzione software è un’attività molto delicata e, come tutte, soggetta all’errore che è insito in ogni attività dell’uomo.
L’IT rappresenta ormai il motore dell’evoluzione dell’industria, in questo senso si può dire che tutte le aziende del mondo sono ormai aziende IT. E mettere a disposizione degli sviluppatori strumenti di sviluppo e testing rapido, così da verificare se quanto sviluppato è sicuro e conforme alle esigenze del business, è cruciale non solo per lo sviluppatore, ma per tutta l’azienda. Lo sa bene Nokia, avrebbe potuto impararlo a proprie spese anche Microsoft, se Bill Gates non avesse attuato una decisa inversione di rotta verso l’improvement della sicurezza del software e dei processi, nei primi anni 2000.
DevOps mutua le virtuose teorie ed esperienze del mondo industriale della seconda metà del 900 (su tutte, la cultura Toyota del lean management, la safety culture, la teoria dei vincoli), portandole nel mondo del software.
Con l’approccio DevOps, con la possibilità di prevedere in maniera continua e fin dall’inizio test e integrazioni, con la possibilità di sviluppare un ambiente simile a quello finale, diventa molto più naturale per uno sviluppatore elaborare nuove pratiche per migliorare l’attività quotidiana (si pensi al modello Toyota, dove ogni operaio veniva messo nelle condizioni di portare soluzioni ai problemi operativi quotidiani, e valorizzato di conseguenza) rendendo possibile quel “modello sistemico” che aiuta a dare la priorità ai miglioramenti.
6) In questo contesto quanto incidono i nuovi livelli di condivisione ed integrazione tra sviluppatori e addetti alle operations sulle fasi di progettazione, testing e rilascio delle soluzioni applicative aziendali?
Incide moltissimo la possibilità, per gli sviluppatori, di lavorare insieme a chi si occupa di infrastruttura. Qui più che sugli strumenti, vale la pena focalizzarsi sull’organizzazione dei team; l’eterna “diatriba” tra sistemisti e sviluppatori è un problema tipicamente italiano. L’obiettivo, ormai, è sempre più quello di “mettere l’Ops nel Dev”, ricorrendo a team ibridi. Composti non solo da “DEVelopers”+”OPerationS”, ma anche da marketers, data scientist ed altri professionisti, che vanno tirati fuori dai rispettivi “silos di appartenenza” e messi nelle migliori condizioni possibili per lavorare insieme, accelerando così il processo di innovazione.
7) Il cloud sta supportando la delivery dei progetti?
Mettiamola così: senza il cloud, tutto questo non sarebbe stato possibile. E parlo soprattutto di due aspetti: da un lato il provisioning di ambienti e risorse, dall’altro lato la collaborazione e la condivisione dei contenuti, all’interno e all’esterno dell’organizzazione. Sicuramente, chi era già sul cloud ha registrato in questo periodo una business continuity importante, ed un conseguente vantaggio competitivo rispetto a chi, su quella nuvola, si è poi faticosamente affrettato a salire. Chiaramente però, il cloud non è la panacea di tutti i mali. Va utilizzato in maniera virtuosa, e con la dovuta attenzione alla sicurezza; in caso contrario, può rivelarsi un pericoloso boomerang.
8) Lavorare in emergenza e in full Smart Working ha fatto emergere nuove dinamiche nei rapporti di lavoro. Quali insegnamenti trarre da questo periodo?
Un insegnamento credo tutti lo abbiano colto. Lo smart working è possibile. E non è poco per un Paese in cui questo messaggio era tutt’altro che scontato, fino a pochissimo tempo fa. Ma mi voglio spingere oltre. Dato che lo smart working segnerà inequivocabilmente le nostre vite lavorative nel prossimo futuro, siamo sicuri che lo stiamo facendo bene? Nel mio piccolo, mi permetto di girarvi qualche consiglio pratico in tal senso:
9) Come garantire ai clienti business continuity in questo periodo, come dare loro fiducia, sostegno, supporto e come adattarsi alle loro nuove esigenze/richieste.
Paradossalmente, i contatti con i clienti si sono intensificati in questo periodo. Forse anche a causa dell’emergenza, che ci rende maggiormente proattivi e propositivi negli scambi, come se volessimo con questo sopperire al “distanziamento sociale” cui siamo obbligati. Siamo tutti connessi e perennemente disponibili, la nostra giornata è scandita dai meeting e gli scambi con i clienti sono frequenti. Gli “habitué” delle riunioni face-to-face si stanno via via ricredendo. Chiaro, non si può andare a cena o andare a giocare a golf con il cliente, e questo tipo di relazione manca e mancherà soprattutto al top management. Ma ci avete fatto caso? Capita sovente di sentire in sottofondo nelle nostre call un bambino che gioca, un gattino che miagola o le note di un brano musicale. Entriamo nelle case dei nostri clienti, e loro nelle nostre. Respiriamo un rinnovato spirito patriottico e ci sentiamo tutti un po’ più uniti. Diciamolo... questa “reclusione domiciliare”, in fondo, ci ha reso tutti più umani.
Danilo Stancato